“Ritorno a Seoul”: il tempo che va nei momenti che restano

Nonostante la durata dei lungometraggi sia cresciuta fino a una media di 3h oggi, raramente i film si prendono il tempo di “farci stare”

Personalmente, spesso mi ritrovo in sala, risucchiata nella mia poltrona, a godere di una vorace consecutio di: entrata in scena di luoghi e personaggi, susseguirsi di eventi più o meno drammatici che siano, chiusura. E tanti cari saluti. Raramente esco dal mio momento dedito a un mondo “altro” con una pienezza d’animo o una risonanza forte di temi con chi quell’universo lo abita nell’arco di una messinscena (i personaggi di un film). Troppo frequentemente, i sussulti d’animo e le introspezioni che suscita in me un lungometraggio, trovano lo spazio di esistere solo nel tragitto dal cinema a casa. Esaurito quel breve fazzoletto di vita, scivolata via quella sera, mi ricorderò magari quel film con entusiasmo e interesse, ma raramente mi riscoprirò a pensarci nei mesi successivi.

Qualcosa di diverso è successo però con “Ritorno a Seoul”, film del 2022 diretto da Davy Chou e uscito nelle nostre sale la primavera scorsa. Sulle prime non sapevo spiegarmi cosa avesse mosso in me, mi sono interrogata a lungo sulla decodifica che deve averne fatto il mio inconscio perché io mi ritrovi, ancora oggi, a parlarne con gli occhi che brillano a chi mi chiede quale sia stato il mio film preferito del 2023.

Dopo aver dialogato in lungo e in largo con me stessa, ho deciso quali sono le ragioni che lo rendono per me un film meraviglioso, che se avete perso dovreste assolutamente recuperare.

Al netto della presupposta fascinazione che dovrebbe indurre nel pubblico occidentale il ritratto di una ragazza “cool” alla (ri)scoperta di sé nella lontana Corea del Sud, suppongo che due delle ragioni che mi hanno conquistata abbiano a che vedere con la vicinanza di età (un quarto di secolo per entrambe), culturale (Freddie è coreana ma, adottata alla nascita, ha sempre vissuto in Francia) e lo stile invidiabile della protagonista, con le sue giacchette di pelle e le smorfie decise.

La ragione più significativa del mio entusiasmo, tuttavia, risiede nella capacità del film di accompagnare Freddie, non solo alla scoperta di sé tout court, quanto piuttosto nei singoli episodi di cui il regista ci rende partecipi. Freddie balla, e la macchina da presa riposa con lei su quella danza irreprimibile e scomposta, malinconica e potente. Freddie si guarda intorno riflessiva, e noi con lei siamo costrett* (dalle nostre comode poltrone in sala) a prenderci il tempo per sostare in quell’osservare lento il mondo che la circonda. Freddie piange, e noi stiamo lì, non possiamo evitare, scansare, accelerare quella profusione di lacrime, ma ci viene chiesto di stare in quel momento, partecipi delle sue emozioni.

Questa lentezza, che non è noiosa e anzi forse brilla così forte proprio perché connota solo pochi momenti esclusivi del film, questa richiesta implicita di stare, sostando con la protagonista nell’esternazione del suo sentito emotivo, è ciò che conquista perché raro, perché troppo spesso limitato al di sotto del minuto nel cinema di oggi.

E me ne sono resa conto nella mia prima implicita resistenza di fronte alla pacatezza della macchina da presa: “Che fa, perché va così lento? Va bene, abbiamo capito che piange, poi che succede? Dai scansati, fammi vedere IL DOPO”. È stata proprio questa mia reazione vorace e rendermi consapevole di quanto in realtà fossero belli e preziosi quei momenti, quelle pause di insieme: io e Freddie a piangere / ridere sul mondo; lei con la sua storia, io con la mia.

Gaia Bugamelli

Credits immagini (cliccando sopra)

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